ACCORDI AZIENDALI, RISOLUZIONI CONSENSUALI E DIRITTO ALLA NASPI IN EPOCA COVID
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Tra le molte norme emanate nell’emergenza epidemiologica, accesa discussione ha suscitato il c.d. “blocco dei licenziamenti”. Se nella prima versione di marzo (quella dell’art. 46 d.l. 18/2020) si prevedeva una preclusione generalizzata, la successiva disposizione di agosto (art. 14 d.l. 104/2020), ha introdotto una stretta correlazione tra il divieto e la durata della cassa integrazione richiesta (o richiedibile, a seconda delle letture).
Sono da subito emerse due letture diametralmente opposte: c’è chi, infatti, ritiene che quest’ultima modifica abbia introdotto una nuova disciplina, differente da quanto disposto precedentemente e dunque non più un divieto generalizzato, e chi ritiene si tratti di una proroga, seppure con una formulazione più articolata della precedente.
Letture non scevre da importanti, e diverse, ricadute applicative.
La disposizione di agosto ha, in ogni caso ed indubitabilmente, innovato, introducendo alcune espresse deroghe.
Più precisamente, la norma esclude tre specifiche ipotesi:
- la cessazione definitiva dell'attività dell'impresa;
- l’esistenza di un accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro;
- il fallimento.
Se la prima e la terza possono considerarsi ipotesi residuali e patologiche, la seconda ha portata certamente innovativa, ciò nonostante risulta essere abbastanza trascurata dagli interpreti.
Ad una prima lettura del dato normativo sembrerebbe che il legislatore abbia operato questa scelta esclusivamente per estendere un ammortizzatore sociale, l’indennità di disoccupazione Naspi, al di là dei limiti previsti dall’art. 3 d.lgs. 22/2015.
In effetti questo elemento costituisce senza dubbio una novità rispetto alla disciplina vigente, per la quale l’assegno di disoccupazione spetta, di regola, solo al lavoratore cessato in ipotesi di “disoccupazione involontaria”, quindi da escludere nelle ipotesi di dimissioni volontarie o risoluzione consensuale.
L’eccezione va dunque sicuramente a “recuperare spazi” di intervento della Naspi laddove risultano sospese anche le procedure ex art. 7 l.604/66 e, di fatto in maniera generalizzata, sono vietati i licenziamenti per ragioni economiche.
La ratio della norma non può che ricondursi dunque anche alla volontà di favorire una gestione collegiale e condivisa delle dinamiche organizzative delle imprese mediante un accordo a formazione progressiva subordinato al consenso delle parti: l’azienda, il sindacato, il lavoratore con la rilevante novità di spiegare effetti ed efficacia nei confronti di un terzo l’INPS, appunto.
In tal modo si cerca di porre al centro delle dinamiche imprenditoriali incentivando il dialogo tra le parti sociali, in quanto sostenuto dall’indennità di disoccupazione, all’interno però di un procedimento negoziale e concertato.
E, viene da aggiungere, potendo così scongiurare quelle forme di risoluzione concordate ed incentivate, “camuffate” da licenziamento, che si sono affermate nella prassi di questo periodo.
Il legislatore impone dunque la stipula un accordo collettivo aziendale dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
L’accordo deve quindi essere aziendale. Di conseguenza la contrattazione collettiva territoriale o nazionale può al massimo dettare accordi quadro per agevolare e semmai indirizzare tali accordi aziendali.
Solo nel caso in cui il sindacato non sia presente nell’impresa, si ipotizza la legittimità ad accedere alla contrattazione di secondo livello.
Si prevede inoltre che a partecipare alla trattativa siano tutte le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e non la singola RSA, a meno che non sia l’unica presente nel complesso produttivo: aspetto non esente da critiche.
Oltre all’accordo collettivo, è però necessaria anche l’adesione formale e sostanziale del lavoratore.
Tuttavia, vi è un altro effetto, evidenziato, a ben vedere, da pochi commentatori.
Dal tenore letterale del testo della disposizione si desume che l’accordo collettivo costituisce in realtà una generale deroga al divieto dei licenziamenti.
E tale deroga è tanto più rilevante perché verrebbe ad operare per tutte le tipologie di imprese con la conseguenza ulteriore di permettere la ripresa, o l’avvio, dei procedimenti previsti dalle procedure della legge 223/1991 in tema di licenziamenti collettivi, nonché l’avvio o la ripresa delle procedure di conciliazione ex art 7. l 604/1966 in tema licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
Diversi appaiono i dubbi applicativi: la norma non specifica, tra le altre cose, se l’accordo aziendale vada depositato telematicamente al Ministero del lavoro (come invece prescritto per gli altri contratti collettivi aziendali o territoriali ex art. 14 d.lgs 151/2015), né se l’adesione del singolo lavoratore debba essere stipulata obbligatoriamente in forma scritta.
Ulteriori questioni potrebbero emergere relativamente alla successione delle norme nel tempo: attualmente la disciplina è stata prorogata fino al 31 gennaio 2021 (art. 12 del d.l. 137/2020) ma sembrerebbe essere intenzione del legislatore procedere ad un’ulteriore proroga fino al 31 marzo 2021 (art. 54 comma 13 d.d.l Bilancio approvato dal Consiglio dei Ministri in data 16 novembre 2020) con conseguente legittimità esclusivamente per gli accordi collettivi stipulati dal 15 agosto al termine ultimo di proroga.